Nel programma neoidealista di svalutazione delle scienze umane, la psicologia fu vittima degli attacchi di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Facendo leva sulle incertezze identitarie di una disciplina per sua natura collocata tra scienze naturali e scienze umane, i due filosofi tentarono in tutti i modi di ridurla a pseudoscienza. Francesco De Sarlo, anche per i suoi interessi interdisciplinari – non appiattito sul naturalismo organicista, si muoveva tra psichiatria, filosofia e psicologia, che non intendeva ridurre alla fisiologia – subì in prima persona tale campagna denigratoria. La sfida si consumò pubblicamente con botta e risposta, e senza esclusione di colpi, sulla rivista crociana La Critica (1903) e sulla desarliana La cultura filosofica (1907).
Benedetto Croce e Giovanni Gentile (Immagine tratta da Corriere.it).
Benedetto Croce in Una seconda risposta al prof. De Sarlo lo avvertiva che non era possibile fare due parti in commedia e che doveva scegliere: “O il medico, o il filosofo!” (Croce, B. (1907). La critica, 5, 243-247).
La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia, fu fondata nel 1903 da Croce che la diresse in collaborazione con Gentile fino al 1923. In alternativa al programma della rivista crociana, nel 1907 De Sarlo creò, dirigendola per un decennio, La Cultura filosofica.
In questo scenario iniziarono a cambiare anche le relazioni tra De Sarlo e Vittorio Benussi, trasferitosi nel 1918 all’Università di Padova. Se infatti da una parte lo spostamento di Benussi sancì l’ingresso definitivo della psicologia fenomenologica in Italia – anche grazie alla ricezione delle dottrine meinongiane da parte del suo allievo Cesare Musatti –, dall’altra produsse una brusca interruzione dei suoi rapporti con la scuola psicologica fiorentina, emersa chiaramente durante il IV Congresso nazionale di psicologia che si tenne a Firenze nel 1923. De Sarlo e Benussi avevano difatti maturato posizioni inconciliabili riguardo ai rapporti tra indagini filosofiche e psicologiche: per il primo erano percorsi da integrare; per il secondo da tenere rigorosamente distinti. Un punto di vista nuovo per Benussi, su cui probabilmente pesarono proprio le istanze idealistiche che allora dominavano il panorama filosofico italiano.
Nel maggio 1923 fu approvata la riforma della scuola promossa da Gentile, fondata sul rinnovamento della cultura nazionale attraverso il recupero della tradizione classica; la psicologia venne messa al bando dalle scuole secondarie e marginalizzata all’Università. Nello stesso anno l’allora presidente della Società italiana di psicologia De Sarlo, antifascista dichiarato e oppositore della riforma, fu sollevato, senza proteste da parte dell’associazione, dall’insegnamento della psicologia direttamente dal ministro fascista della pubblica istruzione, che gli lasciò solo l’insegnamento della filosofia. La direzione dell’Istituto di psicologia fiorentino passò così a Enzo Bonaventura, non strutturato e perciò debole istituzionalmente, che continuò comunque un’intensa e produttiva attività di ricerca diretta anche alla psicologia applicata e alla psicologia dell’età evolutiva.
Nonostante i fermenti e le tante iniziative messe in campo, con il fascismo l’impegno degli psicologi italiani dovette sempre più indirizzarsi, assecondando le direttive del regime, verso l’orientamento al lavoro e la psicotecnica. Ferruccio Banissoni, Agostino Gemelli, Giulio Cesare Ferrari, Mario Ponzo, Vito Massarotti e altri si schierarono inoltre con Mussolini per la battaglia autarchica.
Quella che era nata come “un’utopia liberale”, la psicologia del lavoro, fu rielaborata e piegata alla cosiddetta modernizzazione di cui il regime si prese il merito soprattutto nel campo delle applicazioni delle scienze.
Intorno agli anni Trenta del Novecento furono aperti vari centri di ricerca di psicologia applicata, tra cui ad esempio il Laboratorio di psicotecnica presso l’Istituto tecnico industriale “Leonardo da Vinci” di Firenze (allora Scuola industriale di tirocinio, comunale e non statale), affidato nel 1932 al giovane psicologo Alberto Marzi e rifondato nel dopoguerra come Ufficio o Centro di psicologia applicata; il Centro psicotecnico di consulenza e di ricerche, convenzionato con l’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro (Enios), fondato da Mario Ponzo; il Servizio di orientamento professionale per studenti presso il Regio Istituto industriale di Torino, dal 1937 diretto da Angiola Massucco, allieva di Federico Kiesow.
Nel 1939 il Consiglio nazionale delle ricerche istituì una Commissione permanente per le applicazioni della psicologia. Lanciata da Gemelli – ormai punto riferimento della psicologia italiana – e da lui diretta, stabiliva nella scuola, nel lavoro, nelle forze armate e nelle comunicazioni le aree di particolare interesse e intervento della disciplina. La Commissione – che attraverso successive trasformazioni sarebbe diventata l’Istituto nazionale di psicologia del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma – ebbe la possibilità di contare sull’Archivio di psicologia, neurologia, psichiatria e psicoterapia (già Archivio generale di neurologia psichiatria e psicoanalisi), dal 1926 organo della Società italiana di psichiatria. Dal 1940 segretario della Commissione fu Ferruccio Banissoni, che nel marzo dello stesso anno, quando fu fondato il Centro sperimentale di psicologia applicata del Cnr, ne divenne direttore, organizzando corsi per medici, insegnanti e assistenti sociali.
“Così noi misuriamo la rapidità di percezione con il tachicoscopio di Netschayef, nel quale il soggetto deve leggere su dischetti che passano rapidamente davanti ai suoi occhi il maggior numero delle 9 lettere ivi contenute e riportarle nella stessa posizione in foglio ove è riprodotto lo stesso dischetto”. Immagine e testo tratti dalla relazione tenuta da Vito Massarotti sul tema L’esame psicotecnico nei guidatori di autoveicoli in occasione della II Conferenza per l’unificazione nazionale delle norme e dei segnali per la circolazione urbana, tenutasi a Milano nell’aprile 1931 (Archivio V. Massarotti).
Colloquio per l’orientamento professionale nella Gioventù italiana del littorio. La Gil fu istituita nel 1937 e cessò di esistere nel 1943. Organizzazione delle forze giovanili del regime fascista, aveva per finalità la formazione politica, la preparazione sportiva e militare anche attraverso attività assistenziali e ricreative (Archivio C. Musatti).
Stesso percorso della psicologia del lavoro seguirono i temi della psicoigiene e della prevenzione sociale delle patologie mentali, ristretti agli aspetti demografici e al miglioramento della “stirpe”. Proveniente dagli Stati Uniti, dove si era affermato a partire dai primi anni del Novecento grazie all’impegno di Clifford Beers, il movimento per l’igiene mentale era stato introdotto in Italia da Giulio Cesare Ferrari con una collaborazione interdisciplinare a livello teorico e pratico. In questo ambito nell’ottobre 1924 fu fondata a Bologna la Lega italiana di igiene e profilassi mentale, promossa dallo stesso Ferrari, da Ettore Levi e da Eugenio Medea. Affiliata a quella internazionale e fornita di una rivista (L’igiene mentale), ne facevano parte a vario titolo nomi di spicco della psicologia italiana, come Gemelli e Ponzo, ma anche psicoanalisti come Nicola Perrotti e importanti psichiatri: da Eugenio Tanzi a Sante De Sanctis, da Leonardo Bianchi a Enrico Morselli. Organizzata in sezioni regionali, la Lega promosse la creazione di dispensari e centri d’igiene mentale provinciali per l’assistenza e la cura fuori dal manicomio. I primi furono aperti a Milano, Genova e Venezia a metà degli anni Venti, ma già nel 1936 se ne contavano 26 in varie parti d’Italia.
Fotografia scattata, nel maggio 1930, durante il primo Congresso di igiene mentale, di fronte alla casa nel New Haven, Conecticut, dove fu fondato nel 1908 il movimento per l’igiene mentale; in prima fila da sinistra a destra si riconoscono: José Germain Cebrián di Madrid, Giulio Cesare Ferrari, Georges Genil-Perrin di Parigi, Auguste Ley di Bruxelles e madame Genil-Perrin. Alle loro spalle, partendo dal secondo a sinistra, troviamo: Arnold Gesell della Yale University, Henry W. Ring di New Haven, Clifford Whittingham Beers, miss Kolgraf di Bruxelles e Belarmino Rodriguez Arias di Barcellona (Fondo G.C. Ferrari).
In conseguenza dei Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, emanati alla fine del 1938, molti valenti ricercatori in psicologia furono costretti a lasciare il posto di lavoro con un danno non solo personale, ma per la disciplina in generale. Per fare solo alcuni esempi significativi, citiamo i casi di Enzo Bonaventura, Renata Calabresi e Cesare Musatti. Il primo decise di emigrare a Gerusalemme, dove trovò un posto alla Hebrew University nel 1939 e morì con altre 79 persone nell’attentato di Hadassah nove anni dopo. Calabresi, invece, volò a New York, dove continuò a lavorare come psicologa e non fece più ritorno in Italia. Musatti, al contrario, restò come insegnante di storia e filosofia al liceo Parini di Milano e per un breve periodo presso la Olivetti di Ivrea; nel dopoguerra non solo ebbe la prima nuova cattedra di psicologia, ma si trovò ad essere un punto riferimento in ambito psicoanalitico.
Circolare del ministero dell’Educazione nazionale, del 30 settembre 1938, riguardante il Divieto di adozione nelle scuole dei libri di testo di autori di razza ebraica; Enzo Bonaventura compare al numero 12, mentre il numero 11 è suo padre musicologo (1938, Il Giornale della Libreria, 51(41), 278-279).
A proposito di psicoanalisi, è bene notare che l’interesse di docenti e allievi italiani era diffuso da molto tempo in Italia, anche in contesti che possono sembrare sorprendenti. Al di là dell’opera dei pionieri più spesso citati come Edoardo Weiss, Marco Levi Bianchini ed Emilio Servadio, fin dal 1896 Eugenio Tanzi aveva recensito e fatto recensire nella sua Rivista di patologia nervosa e mentale vari lavori originali di Freud; in Psiche di Roberto Assagioli si traducevano le opere freudiane; nell’Associazione di studi psicologici presieduta da De Sarlo si discuteva anche di sogni e di inconscio; Benussi, che negli anni precedenti la Grande guerra si era avvicinato ai temi psicoanalitici attraverso Otto Gross, nel 1926 tenne alcune lezioni all’Università di Padova sulle teorie freudiane, poi raccolte da Silvia De Marchi in un volume postumo intitolato Suggestione e psicoanalisi (1932); anche Enrico Morselli, ormai in là con gli anni, fece uscire per i tipi di Bocca due tomi, molto criticati, su La Psicanalisi (1926); lo stesso Enzo Bonaventura, da assistente del laboratorio di psicologia sperimentale di Firenze, pubblicò nel 1938 con Mondadori il pionieristico volume La psicoanalisi, presto esaurito e subito ristampato, accolto con buonissime recensioni, ma che non ebbe nuove edizioni fino al secondo dopoguerra perché lo psicologo fu inserito dal regime nella lista degli autori vietati.
In questo scenario è interessante notare come non pochi psicoanalisti fossero fascisti. Per esempio Levi Bianchini, sostenitore del regime con articoli in riviste di medicina sociale e tra i fondatori del Fascio di Teramo, poi costretto a lasciare il suo posto di direttore del manicomio teramano a causa delle leggi razziali; oppure il triestino Ferruccio Banissoni, sottoposto a processo di epurazione nel 1945, che da studente di medicina a Vienna nel 1913 aveva avuto modo di seguire per due anni le lezioni di Sigmund Freud, al quale era stato presentato da Edoardo Weiss, iniziando a occuparsi di teorie psicoanalitiche.